Brennero: quanto costa la dis-Unione europea?

Non è chiaro come saranno costituite le barriere, se si adotterà il modello ungherese, con la creazione di percorsi da compiere a piedi per i soli migranti, o se si tratterà di blocchi che andranno a impedire la libera circolazione di tutti. Fatto è che la notizia che l’Austria si stia organizzando per chiudere le frontiere, questa volta anche con l’Italia, allerta tutti, a partire dalle imprese e dalle associazioni di categoria che operano nel settore del trasporto merci.
Bisognerà attendere la primavera perché quanto minacciato e annunciato finora da Vienna prenda una forma definita. Per il momento, quel che è certo è che le bobine di filo spinato ci sono già e dovrebbero essere dodici in tutto i valichi presso i quali verranno attivati i presìdi; tre quelli con l’Italia: Brennero, Tarvisio e Resia.

I valichi fra Italia e Austria e il traffico merci
Più di 400 chilometri e un se- colo di storia, attraversata anche da una guerra mondiale, separano il sud dell’Austria dal Nord dell’Italia.
Attualmente sono numerosi i valichi di frontiera che uniscono i due Paesi. Oltre ai più noti come il Passo del Brennero, raggiungi- bile mediante l’autostrada A22 (o la statale 12), il Passo del Tarvisio che collega Udine a Villach (in Carinzia) e il Passo Resia, che da Merano conduce al confine tra Austria e Svizzera, ci sono il Passo di San Candido, il Passo di Monte Croce Carnico, il Passo di Pramollo e del Rombo, a nord di Merano. Ogni anno milioni di mezzi pesanti attraversano i tre passi principali, trasportando volumi consistenti di merci.
Si calcola che solo per il Brennero viaggino circa 2milioni di tir; circa 900mila per il Tarvisio e quasi 100mila per il Resia (dati Centro Studi Confetra).
In generale, la tratta del Brennero è quella più intensamente battuta in tutto l’arco alpino con un volume che da solo rappresenta circa il 30% del traffico merci nord-sud, la maggior parte su gomma e il restante su ferro: le proporzioni parlano di un 70% contro il 30%.
Secondo Eurostat nel 2014 sono arrivate dall’Austria in Italia merci per 393 milioni tonnellatechilometro, dall’Italia all’Austria risultano invece 313 milioni tonnellate chilometro; mentre il Centro Studi di Unioncamere del Veneto fa sapere che attraverso il Brennero nel 2014 sono passati 41 milioni di tonnellate (pari al 20% dell’intero traffico transalpino).  Il 70% di queste merci (circa 29 milioni di tonnellate) viaggia su gomma. Il restante 30% (12 milioni di tonnellate) su rotaia, che corrisponde a un transito di circa 120 treni merci al giorno. Di fronte a questi dati i timori sono non solo per le ripercussioni immediate, ma anche per gli effetti indiretti sui tempi e sui costi dei trasporti che potrebbero avere le restrizioni.
Se è vero infatti che l’accordo di Schengen riguarda le persone, è ovvio che la limitazione della libera circolazione avrà ripercussioni sul lavoro di coloro che ogni giorno attraversano, via terra e via ferro, la linea sottile che se- para l’Europa mediterranea dal Nord Europa.
Tanto che le Camere di commercio di Tirolo, Bolzano e Trento  hanno chiesto ai rappresentanti politici di limitare al massimo le temute ripercussioni dei controlli ai confini.
Thomas Baumgartner, presidente di Anita, ha spiegato infatti che “l’attività di controllo comporterà inevitabili tempi di attesa” che si tradurranno in altrettanti inevitabili costi economici.
“Un camion fermo costa all’azienda circa 60 euro l’ora, quindi, con un ritardo di sole due ore possiamo supporre un au- mento dei noli del 10% che ricadrà senza dubbio sui costi e, quindi, sui prezzi dei prodotti e, di conseguenza, sul consumatore finale”.
Senza contare che un simile passo indietro metterebbe in di- scussione la filosofia del ‘just in time’, applicata alla gestione delle scorte di magazzino soprattutto in settori come quello dell’agroalimentare e dell’automotive.
“Il mondo produttivo – spiega ancora Thomas Baumgartner – è ormai improntato su tempi di consegna molto rapidi e spesso utilizza i veicoli industriali come ‘magazzini’ per lo stoccaggio delle merci”.
Per Amedeo Genedani, presidente di Confartigianato Trasporti, “chiudere i varchi vuole dire realizzare un’unica corsia per il transito dei veicoli pesanti con la conseguenza di accumulare conseguenti ritardi sulle tabelle di marcia dei viaggi nonché un appesantimento burocratico, tutto il contrario dell’efficienza e della velocità, che non serviva”.
E se è vero quanto riferito da Walter Pardatscher, amministratore delegato di Autobrennero, e cioè che l’intenzione è quella di creare una corsia riservata per i mezzi pesanti, che verranno controllati a campione su un piazzale allestito ad hoc, è facile che le preoccupazioni di oggi prendano forma concreta.
Una situazione, questa, che ci riporterebbe indietro di più di 20 anni, a prima del 1995 data in cui l’Austria firmò il Trattato di Schengen preparandosi così a porre fine alla pratica delle autorizzazioni di transito necessarie all’epoca per varcare i valichi.
Un secondo punto da tenere in considerazione riguarda, poi, il pericolo di un nuovo effetto Calais sulle Alpi, col rischio che lo stazionamento dei mezzi ai valichi possa creare le condizioni favorevoli per salire di nascosto sui camion fermi in coda.

I benefici della libera circolazione e i costi della non-Europa
Il France Stratégie, think tank del governo francese, ha recentemente elaborato un documento dal titolo The Economic Cost of Rolling Back Schengen in cui si analizza l’impatto economico della limitazione del Trattato di Schengen, a trent’anni dalla sua entrata in vigore. Secondo lo studio, oltre alle conseguenze sul turismo e sulla vita dei lavoratori transfrontalieri nel caso di chiusura temporanea delle frontiere, sono da considerare i costi a medio e lungo termine di una limitazione permanente che causerebbe una perdita dal 10% al 20% degli scambi commerciali tra gli Stati firmatari del trattato; nel complesso il Pil dell’area Schengen si ridurrebbe di 0,8 punti, pari a più di 100 miliardi di euro.
Anche il presidente della Commissione europea Jean Paul Juncker, durante il suo discorso di inizio anno, aveva riaffermato la determinazione di mantenere l’area di libera circolazione spiegando che in una Europa senza Schengen “l’attesa alle frontiere interne costerebbe ad ogni camion 55 euro l’ora”.
Più in generale, la fine dell’area Schengen potrebbe costare all’Europa nei prossimi 10 anni circa 1 miliardo e 400 milioni di euro: questo lo scenario peggiore ipotizzato recentemente dal centro studi tedesco Bertelsmann Foundation. La reintroduzione dei controlli, per tutte le ragioni elencate e per tutte le sue implicazioni, farebbe crescere infatti del 3% i costi dell’import. Nella migliore delle ipotesi, con la crescita dell’1% dei costi delle importazioni, invece, la perdita sarebbe di 470 mila milioni di euro. Tutto questo mentre l’Unione europea continua a prefigurarsi un futuro di segno totalmente opposto, in linea con la filosofia che ha dato vita alla Ue: i servizi di ricerca del Parla- mento europeo hanno presentato la Mappatura del ‘costo della non- Europa’ 2014-2019 in cui si afferma, infatti, che il vantaggio economico minimo derivante da un mercato unico dei trasporti più aperto, integrato, sicuro e di maggior qualità, potrebbe ammontare ad almeno 2,5 miliardi di euro all’anno.